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 Focolaio Libia: l’Italia non può essere sola

La crisi in Libia e il grave deterioramento del quadro di sicurezza internazionale, è stata al centro di una comunicazione alla Camera del Ministro degli Affari esteri Paolo Gentiloni. Un quadro, ha detto il responsabile del dicastero, che ha portato l’Italia a decidere la temporanea chiusura dell’ambasciata. Dalle sue parole emerge che la realtà della presenza di gruppi terroristici in Libia deve essere valutata con attenzione, distinguendo tra fenomeni locali, criminalità comune, e realtà esterne rappresentate dai combattenti stranieri. Fenomeni che si autoalimentano traendo vantaggio dall’assenza di un quadro istituzionale nel Paese. Gentiloni è stato chiaro su un punto: le origini della crisi attuale vanno cercate negli errori compiuti, anche dalla comunità internazionale, nella fase successiva alla caduta del vecchio regime di Gheddafi. Ci sono di mezzo rivalità politiche, religiose, regionali, etniche e tribali che il vecchio regime teneva sotto controllo e che subito dopo sono scoppiate senza possibilità per alcuno di saperle contenere.

Oggi nel Paese le istituzioni sono praticamente fallite e potenziali gravi ripercussioni potrebbero riflettersi su di noi, ma anche sulla stabilità degli altri Stati africani contermini. Gentiloni ha ribadito che l’Italia ha deciso, sin dal primo momento, di sostenere senza sosta lo sforzo di mediazione delle Nazioni Unite, sapendo bene che l’unica soluzione alla crisi in Libia è quella politica. E sapendo che mentre il negoziato muove questi primi passi, la situazione si aggrava, a cominciare dalla crescita dell’onda migratoria, rispetto alla quale però una cosa è certa: non possiamo voltarci dall’altra parte, lasciando i migranti al loro destino. Dobbiamo, piuttosto, batterci per contrastare le cause delle migrazioni nei Paesi di origine e di transito e dobbiamo rafforzare sensibilmente la missione Triton, per adeguarla alla realtà di un fenomeno di scala enorme. Ma non possiamo ess ere soli di fronte a questa situazione: serve un cambio di passo da parte della comunità internazionale prima che sia troppo tardi.

 

È tempo di proroghe

Anticipato da un voto di fiducia (354 sì, 167 no, 1 astenuto), alla Camera abbiamo approvato il decreto Milleproroghe, quel provvedimento che ha la finalità di prorogare o differire termini legislativamente previsti al fine di garantire la funzionalità in diversi settori.

Tra i più importanti di questi settori la proroga degli sfratti di 4 mesi: si consente, cioè, al giudice di disporre, su richiesta della parte interessata e al fine di consentire il passaggio da casa a casa, la sospensione dell’esecuzione delle procedure esecutive di rilascio per finita locazione.

Un’altra previsione attesa riguardava le partite Iva: si stanziano 120 milioni l’anno per bloccare al 27% l’aumento previsto dell’aliquota contributiva Inps per gli iscritti alla gestione separata. Inoltre, i possessori di partita Iva, con guadagni fino a 30mila euro, per tutto il 2015 potranno optare sia per il nuovo regime dei minimi con l’aliquota forfettaria al 15%, sia per il vecchio regime al 5% ma con il limite fino a 5 anni o al raggiungimento dei 35 anni d’età.

Sul fronte del lavoro e dell’occupazione, si proroga per il 2015 l’incremento del 10% dell’ammontare del trattamento di integrazione salariale per i contratti di solidarietà, che passa, quindi, al 70% della retribuzione. Prorogata di 24 mesi anche la cassa integrazione guadagni straordinaria per cessazione di attività.

Importantissimo, poi, l’allungamento da 4 a 6 anni della durata complessiva dei rapporti instaurati per il conferimento degli assegni di ricerca, che dà respiro al mondo dei giovani ricercatori. E per chi è sensibile dal punto di vista ambientale, è stato prorogato anche il regime fiscale di vantaggio relativo alle energie da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche, oltre che da carburanti ottenuti da produzioni vegetali.

 

E ora parliamo di doping in divisa

Prosegue il mio impegno su questo argomento che cerco di approfondire in ogni suo aspetto. Sto infatti affrontando la vicenda del doping anche per quanto riguarda i gruppi sportivi delle forze armate o dell’ordine in quanto ritengo che coloro che indossano la divisa debbano essere i primi atleti a risultare puliti e a contrastare questo fenomeno. Ho già spiegato tante volte anche il perché: il doping alimenta il malaffare ed è una pratica sporca, in tutti i sensi.

Per questo motivo ho presentato senza indugi un’interrogazione a risposta scritta in cui chiedo ai Ministri competenti di sapere “se i comandanti dei Gruppi sportivi erano a conoscenza che atleti di tutte le discipline sportive, appartenenti al proprio gruppo sportivo, non avevano provveduto a inviare il modulo della propria reperibilità come previsto dal Codice antidoping del Wada e quale sistema di controllo interno abbiano messo in atto in questi anni per prevenire il mancato invio della reperibilità e del possibile uso di sostanze dopanti da parte dei propri atleti”. Ma anche “se i comandanti dei Gruppi sportivi, dopo le notizie delle agenzie di stampa sugli interventi fatti dalla Procura di Bolzano a settembre 2014, si siano attivati per verificare che i propri atleti non fossero nella condizione di aver disatteso all’obbligo di inviare la reperibilità e quali provvedimenti abbiano messo in atto nei confronti degli atleti che avessero eventualmente disatteso a questo obbligo”.

Infine, “se gli atleti appartenenti ai gruppi sportivi che risultano convocati per chiarimenti dalla Procura antidoping, abbiano concordato una linea difensiva comune assumendo un unico studio legale e se tale percorso sia stato condiviso e concordato dai comandanti e responsabili dei gruppi sportivi”. Ricordo che lo snodo in tema di controllo antidoping è nell’agenzia terza, ma anche nella procedura che vede la comunicazione della reperibilità il punto focale delle verifiche. E se nessuno si preoccupa di sanzionare gli atleti che non fanno sapere con esattezza dove si trovano, è chiaro che il meccanismo non funziona. Ciò, ribadisco, vale per tutti. E chi porta la divisa lo deve sapere a prescindere.

 

Coste italiane a rischio

Ho sottoscritto un’interrogazione, rivolta al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare, che tratta dei fenomeni di erosione che interessano sempre più le zone marino-costiere italiane, spesso favoriti da fattori antropici. La questione è sempre quella del consumo di suolo, particolarmente grave quando si tratta della costa: secondo l’annuario Ispra, infatti, il 35,8% del territorio nazionale compreso nella fascia dei 300 metri dalla riva, risulta urbanizzato, per un valore complessivo di 731 chilometri quadrati su 670 comuni. E nel contempo l’erosione dei litorali interessa quasi la metà del Paese: su circa 8.300 chilometri di fascia costiera il 42%, cioè poco meno della metà, è soggetto a questi fenomeni e 2400 chilometri di costa italiana ne mostrano gli effetti. Ogni anno si perdono 75mila metri quadrati di spiagge e in pericolo è soprattutto i l versante Adriatico.

Numeri agghiaccianti, che portano a chiedere al Ministro che cosa stia facendo per contrastare l’erosione delle coste, se sia stata avviata una ricognizione mirata sulla situazione dei litorali, dei progetti in corso, delle norme e delle conoscenze tecniche e scientifiche esistenti. E se non ritenga opportuno valutare una proposta comune per accedere ai fondi strutturali messi a disposizione dall’Unione europea e iniziare interventi eco-sostenibili prolungati e specifici.

Paolo Cova